Progetto UNO e 7: Ma che lavoro fai? Lavoro con un Bibliomotocarro.

Il Bibliomotocarro è un progetto, un’azione programmata di educazione popolare, che agisce nei territori esclusi da grandi circuiti culturali e offre ai bambini l’opportunità di approcciarsi alla letteratura in modo continuativo e stabile nel tempo, conoscendo gli autori e le storie anche attraverso mezzi differenti, quali l’animazione cinematografica e la fiction, rielaborando e manipolando testi letterari e dando loro una forma nuova. Ma il Bibliomotocarro svolge la sua funzione soprattutto nella sua forma originaria, quella di biblioteca ambulante, dall’idea del maestro Antonio La Cava, proprietario a tutti gli effetti del mezzo e papà dell’associazione che dal mezzo, appunto, prende il nome.

In pratica il ruolo del Bibliomotocarro è trasportare le storie da un punto all’altro del mondo, da una pagina a un cervello, perché quelle storie diventino semi.

In UNO e 7, progetto di cui il Bibliomotocarro è partner, quei semi vengono piantati, coltivati e curati rispettando i tempi dei bambini, come per il maggese: dopo aver creato una storia e averla animata vi è un tempo di riposo, tutto dedicato a ritemprare l’immaginazione, prima che ritorni il Bibliomotocarro a ripiantare e lavorare con altri nuovi semi nelle menti pronte curiose e attente dei bambini.

Nel viaggio di questo bel mezzo si incontrano meraviglie e disperazioni, molte battaglie personali di bambini e famiglie, solitudini e legami, che trovano conforto e compimento nella lettura di una storia e nella meraviglia del gesto di fiducia. L’atto di prestare e restituire una storia è un grande atto di fiducia, un patto. Una promessa:

Ti ho visto; ti ho visto così tanto che ti presto una cosa e tornerò. 

Mi hai visto, mi hai visto così tanto che mi presti una cosa e io ti aspetterò.

Che promessa straordinaria da fare a un bambino o a una bambina: esserci vedersi e ritornare…

Quello che segue è il racconto di un progetto nello stile del Bibliomotocarro.

Buona lettura!

Storie di funamboli
Un giorno, come sempre, abbiamo cominciato a leggere le storie e a ridere. Poi i bambini sono stati distratti da un moscone, qualcuno ha cominciato a sussultare qualcuno a ridacchiare e le storie dei libri, per quanto belle, per quanto irriverenti o divertenti, non richiamavano la loro attenzione, perché c’era un moscone grandicello che si posava su una guancia sudata, su qualche chioma scompigliata. Le possibilità erano varie: lanciare il grido da drago verde che solo una maestra, qualche volta, sa far venire fuori dopo ore di lavoro; oppure inseguire il moscone, all’aria aperta e sconfiggerlo a suon di librate in testa; oppure arrendersi e dire “qui non abbiamo più nulla da dire”; oppure trovare qualcosa di più interessante di un moscone da proporre.

Quel giorno, come è e come non è, abbiamo pensato: che essere drago all’aperto e col caldo che faceva, fosse un po’ da matti; che inseguire il moscone e cominciare una guerra, sarebbe stato dispendioso di forze e poco onesto verso il moscone; che arrenderci non fosse il caso, perché eravamo andati lontano e quei bambini avevano così tanto da dirci se erano riusciti a creare uno spettacolo col volo di un moscone; che trovare qualcosa di più interessante di un moscone era una soluzione intrigante, non avendo un tempo infinito per buttare giù strategie e non avendo ali per volare come l’animaletto.

A un certo punto, tra il volo del moscone e le risate e i saltelli, ci siamo messi a ridere io e il mio collega Max, guardando un foglietto spiegazzato e bianco. Io bisbigliavo cose e Max rideva, guardando il foglio. Il moscone gironzolava e, evidentemente curioso, si è posato sul foglietto. Con un movimento veloce della mano Max ha salutato il moscone, che è volato via mentre un bambino gridava SE N’È ANDATOOOO!

Intanto un altro bambino ha chiesto cosa fosse quel foglio. Gli ho spiegato che conosco molti bambini che amano la matematica ma che non sono riusciti ancora a scrivere il numero che avevo scritto io su quel foglio. Una bambina ha chiesto “e che numero hai scritto? Perché non lo sanno scrivere questo numero?” Il bambino più tranquillo, quello che durante il volo del moscone sorrideva timido ma non si scomponeva, perché sai, è lui quello più serio della classe, quello che fa tutto bene e sa già cosa dovrà fare da grande, ci ha chiesto di metterlo alla prova, perché forse avrebbe saputo rispondere alla richiesta.
Ok
Gli ho detto io.
Ok.
Ha detto lui.
Gli altri aspettavano.

“Vieni qui” ha detto Max, che gli ha bisbigliato nell’orecchio il numero. Il bambino non si è scomposto, ha detto solo “facile!”. E ha chiesto un foglio e una penna, per scrivere il numero. Ma il numero era… sbagliato! Il resto della classe si è bloccato, era ipnotizzato immobile fermo spiaccicato sul muretto a bocca aperta. C’erano così tante bocche aperte che il moscone, se fosse tornato, avrebbe potuto conoscere le tonsille di ogni bambino e ballare il tango con le loro ugole, senza che muovessero un dito. Ma il moscone non è tornato. Il più bravo della classe ha sbagliato! WOW!
“Posso sapere quale numero?” Dice una bambina, poi anche un’altra, un altro, un’altra un altro, un’altra, un’altra, un altro, un altro, ecc. ecc.

“Va bene va bene! Allora vi diciamo il numero! Ma concentratevi e ricordate, lo ripeteremo solo una volta ogni tredici minuti”. Così abbiamo detto il numero, che è proprio un numero, un numero normale insomma; non un numero di telefono o un numero civico, o un numero di conto o un numero criptato, è proprio un numero numero. E sentito il numero numero, i bambini hanno riso, ma proprio tanto. Tutti, nel giro di 5 secondi avevano scritto il numero sul foglio.

(Il fatto di questo numero va così: il numero va scritto esattamente come sta scritto sul foglio. Quando io o Max leggiamo il numero, tutti i bambini lo immaginano e lo scrivono. Ma alcuni lo scrivono come fossero migliaia, altri lo scrivono con un simbolo vicino, altri ancora lo scrivono come fossero due numeri, altri lo scrivono come fosse un elenco numerato dello stesso numero).

Tutti avevano scritto uno o più numeri, ma nessuno aveva scritto quel numero preciso, come scritto sul foglio. Eppure avevamo avvisato di pensare bene, anzi di non fermarsi a pensare, di non seguire il buon senso, di non mantenersi in un limite, di ragionare con leggerezza, di imitare un ragionamento tra le nuvole, come facciamo io e Max, che non siamo proprio due tipi che capiscono di matematica o di numeri.
 “Chiediamo alla maestra!”, ha detto una bambina. E noi abbiamo risposto: “Ok. Chiedete alla maestra, ma risolverete il problema in classe, perché ora noi dobbiamo andare via…”

E a quel punto che è successo? I bambini avevano ancora le bocche aperte, qualcuno si è lamentato per il disturbo che procurava questo non riuscire a trovare quel numero. Abbiamo sentito un rumore di rotelle che si muovevano, facevano attrito venivano oliate e riprendevano a funzionare più veloci di prima. Abbiamo visto, mettendo a posto le nostre cose (i libri, i colori, i fogli) che come tanti piccoli moscerini i bambini formavano nugoli, si confrontavano ridevano una con l’altro scrivevano cancellavano si mandavano a quel paese (ma gentilmente) e ricominciavano a scrivere e a pensare.

Abbiamo salutato e siamo saliti in auto con un interrogativo: li lasciamo a pensare e a cercare, a svegliare la curiosità, a farsi prendere dal fastidio di non risolvere, a rischiare la frustrazione di non riuscire o gli sveliamo il mistero, bloccando tutto questo bel fermento, tutto lo scambio che si sta muovendo tra loro, bloccando le connessioni le relazioni svelando la soluzione?

Allora Max è andato da loro e ha detto: “Ricordate che noi per lavoro, giochiamo, che siamo venuti a leggere libri con voi e soprattutto che quando cerchi una soluzione a una cosa che ti pare difficile, a volte è solo il percorso che hai scelto ad essere difficile, ma la soluzione ce l’hai in testa o in bocca o in mano.” Max ha fatto un occhiolino ed è salito in auto. Siamo partiti e non abbiamo più parlato di quel numero e non ne parleremo più, fino a quando il nostro collega moscone non verrà di nuovo a trovarci.

Il nostro lavoro coi bambini è straordinario. C’è un filo che ci tiene appesi alla realtà, che è la complessità dei luoghi in cui ci troviamo e il materiale umano che incontriamo. Ogni volta incontriamo tutto ciò che è possibile (una straordinaria bioarchitetta, un sociologo interplanetario, una medica veterinaria in Africa un coltivatore di zafferano, un’allevatrice di alpaca, un operaio della fiat, una poliziotta, un killer, ecc ecc) e tutto ciò che sarà. In quello spazio, su quella fune, proponiamo le storie che amiamo, le leggiamo e le trasformiamo con questi bambini. Molte volte il laboratorio riesce, qualche volta vince il moscone. Il bello è però sentire le rotelle in movimento, vedere la ricerca di soluzioni cooperative, il desiderio di sperimentare colori e materiali, ridere di parole sconosciute, seminare un seme.

Foggiano, Armento, Ginestra, sono tre esperienze assolutamente differenti tra loro, per il paesaggio, il numero di bambini, i desideri di futuri immaginati e raccontati; e sono differenti per il lavoro che ci vuole a “parcheggiarsi” negli spazi che questi bambini  lasciano aperti, o a muoversi nei tempi che intendono consegnarci.

In realtà ogni laboratorio è un’esperienza di equilibrio, da funambolo. Capire quando fare il passo, quando il vento è forte, quando il moscone arriva e devi arrenderti o cambiare strada, quando devi avere il piano B, quando non devi avere un piano, quando devi ascoltare con attenzione e quando invece devi saper chiudere le orecchie. In questo continuo riequilibrarti, sai che spesso non avrai una nuova occasione, non hai il pregio della consuetudine dell’incontro, non potrai rinnovare promesse, accontentare o deludere future aspettative, raddrizzare tiri o sapere come le storie che hai incontrato andranno a finire. Proprio come un funambolo, finito lo spettacolo, tocca d’andare in altri luoghi, sperando che il lavoro che ti piace tanto sia stato almeno divertente per questi bambini.

P. S. Alla fine è tornato il moscone a svelare come scrivere il numero, posandosi su un parabrezza polveroso di una vecchia auto, sul quale era scritto…

racconto di Erminia Pinto (educatrice e funambula del Bibliomotocarro)

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